Ritengo inutile definire l’ansia in termini tecnici. La conoscono tutti, anche se non tutti lo ammettono.
L’ansia è il sintomo più comune di pressoché ogni tipo di disturbo psicologico. Molto spesso è del tutto comprensibile, e può essere immediatamente collegata a situazioni stressanti, ansiogene, che idealmente andrebbero risolte. Quando è possibile intervenire spontaneamente sulle cause, nessuno va dallo Psichiatra, a meno che qualcuno non ce lo trascini. Non essendo in genere possibile intervenire direttamente sulle cause evidenti dell’ansia, può accadere che ci si rivolga ad un medico.
Certamente il primo a essere consultato è molto spesso il medico generico, il quale difficilmente ha la possibilità di dedicare il tempo necessario ad individuare la natura del problema. Può così capitare che siano prescritte terapie psicofarmacologiche standardizzate, in mancanza della possibilità di seguire realmente il paziente, o anche semplicemente di monitorare il decorso.
Anche quando risulta subito chiaro il nesso con fatti e situazioni traumatici o stressanti, accolgo comunque la richiesta; in ogni caso è una richiesta d’aiuto che non trova, al momento, altro ascolto.
Cerco sempre di capire quali siano le eventuali cause comprensibili e correggibili, e se richiesto, posso anche intervenire con strumenti psicoterapici o farmacologici (ansiolitici), per il tempo minimo necessario a ritrovare le forze per agire sulle cause, a prescindere dalla cura.
Quando invece non è evidente il legame fra l’ansia e situazioni ambientali o relazionali difficili, occorre approfondire, per collocare il sintomo in una sofferenza complessa, che richiede un’elaborazione medica e psicologica per essere interpretata correttamente, o semplicemente per essere compresa.
In casi del genere può essere utile formulare una diagnosi, che può essere psichiatrica o, in alcuni casi, di ordine più strettamente medico (vale a dire che possono emergere segni di affezioni fisiche di varia natura).
Corrispondentemente, la terapia tende ad assumere caratteri di maggiore impegno, sia per il paziente che per il medico.
Da quanto sopra accennato, deriva che ci si limita alla terapia sintomatica (farmacologica) dell’ansia soltanto nei casi in cui risultano palesi le sue cause, e solo per un periodo il più breve possibile.
In casi di maggiore complessità, la componente ansiolitica della terapia farmacologica può avere comunque una sua utilità nei periodi più acuti.
In generale, è importante sottolineare l’improprietà dell’assunzione di ansiolitici per periodi protratti.
Certamente la dipendenza da sostanze più diffusa è rappresentata dall’uso cronico di questo tipo di farmaci (in genere della categoria delle Benzodiazepine). Il problema è raramente sollevato a livello mediatico, ma è arcinoto nell’ambiente medico. Sicuramente, se la questione fosse affrontata pubblicamente con la stessa enfasi solitamente posta sull’alcool (o su altre dipendenze piuttosto poco definite, come la dipendenza da internet o dal sesso o addirittura “affettiva”), le aziende produttrici andrebbero incontro a grossi problemi. Ma un certo disappunto coglierebbe anche una parte dei medici (che trovano una facile via d’uscita con i numerosissimi pazienti ansiosi), la totalità dei farmacisti (stazionare 20 minuti in una qualunque farmacia per verificare) e, non ultima, una consistente proporzione della popolazione (legata alla dipendenza, grazie all’enormità della produzione, prescrizione e vendita)
Questa è la denominazione che, da qualche decennio, si usa adottare per descrivere un disturbo che sembra avere incidenza sempre crescente.
Di certo la diagnosi di DAP è molto frequente, ma occorre considerare che qualche tempo fa non esisteva nemmeno: ad attacchi violenti di ansia con sintomi fisici si assegnavano altri nomi.
Attualmente si tende a distinguere fra stati ansiosi acuti e attacchi di panico, riservando quest’ultima definizione a stati ad insorgenza improvvisa, in cui ad un’ansia intensissima e incontrollabile si associano variabilmente segni e sintomi tipici. I più frequenti sono: palpitazioni cardiache spesso legate a tachicardia, aumento transitorio della pressione arteriosa, difficoltà respiratorie, sensazioni di oppressione riferite al torace o allo stomaco, sudorazione fredda, vertigini, disturbi visivi, sensazioni di formicolio, senso di confusione mentale, disorientamento, paura di morire (per infarto cardiaco, per ictus o per qualche malattia improvvisa indefinita), paura di impazzire.
Gli attacchi possono presentarsi nel quadro di fobie (specialmente agorafobia o claustrofobia).
Abbastanza comunemente in questi casi, specie in occasione del primo attacco, ci si rivolge al Pronto Soccorso. Ciò è comprensibile e ragionevole, dato che alcuni segni e sintomi possono simulare il panico, ma essere dovuti effettivamente a patologie più gravi di natura organica. Infatti al Pronto Soccorso in casi del genere si provvede ad una visita medica e ad esami strumentali e di laboratorio.
Il lato problematico dell’intervento in urgenza consiste nel fatto che, dopo la somministrazione immediata di ansiolitici (efficacissima sul momento, e con effetti controllabili sul posto), si è soliti procedere con troppa fretta a prescrizioni farmacologiche un po’ uguali per tutti (tipicamente: antidepressivi serotoninergici da proseguire indefinitamente. La somministrazione corretta di questo tipo di farmaci richiede gradualità, e soprattutto non è affatto sempre consigliabile).
Quello che occorre davvero, passata la crisi, è che il paziente sappia a chi rivolgersi nell’immediato futuro, per cure farmacologiche e psicologiche.
In termini tecnici, uno dei sintomi degli attacchi di panico si definisce “depersonalizzazione”; se a questa si aggiunge una spersonalizzazione, il risultato dell’intervento può essere deludente. Quando questo accade, i pazienti possono ritornare anche ripetutamente a richiedere interventi in Pronto Soccorso, probabilmente perché non hanno potuto essere compresi e aiutati in altro modo, sicché “la terapia non funziona”.
Nella mia esperienza, già dai primi colloqui emergono situazioni di tensione psichica che costituiscono con tutta evidenza il terreno su cui insorgono gli attacchi. Senza comprendere la condizione psichica che il paziente sta attraversando, mi sento di affermare che non si arriva a grandi risultati.
Ho appreso i principi che ho riassunto anche lavorando in Pronto Soccorso.
Alcuni farmaci possono avere un ruolo per moderare i sintomi a breve e medio termine. La tendenza più diffusa è di prescrivere farmaci considerati “antipanico” senza fare troppe distinzioni. Un effetto così preciso non esiste.
La scelta terapeutica va invece fatta tenendo conto di molte variabili, fra cui le condizioni fisiche del paziente e la possibilità di modificare le reazioni affrontando (e possibilmente risolvendo) situazioni sfavorevoli.
Se instaurata subito e intensivamente, la psicoterapia può avere anche effetti a brevissimo termine.
Sul lungo termine, sono fermamente contrario all’assunzione di farmaci intesi a controllare il panico. Nella supposizione di questo effetto portentoso, si finisce troppo spesso per non abbandonarli mai. A parte gli effetti nocivi dell’assunzione prolungata, in questo modo il ripetersi di attacchi di panico diventa più probabile, perché il paziente, di fatto: